Tutti i compiti che un’agenzia pubblicitaria svolge possono essere condensati in un solo fine: raccontare un brand in maniera efficace, arrivando al cuore del suo potenziale pubblico. Da tempo si discute sulle tecniche di persuasione nel campo del marketing, includendo o bypassando il ruolo del digitale e i suoi calcoli più asettici. Arrivare prima degli altri, posizionarsi nei risultati alti di Google, raggiungere il maggior numero di utenti Instagram grazie a costose campagne di advertising. Insomma, davvero la comunicazione si è ridotta ad essere una fredda sequenza di algoritmi?

La risposta è no. Non nel senso che le campagne di advertising non servano (anzi, sono fondamentali) ma in quello che rappresenta al meglio il momento storico in atto: abbiamo bisogno delle macchine, dei loro calcoli, ma fino ad un certo punto. Quando parliamo di pubblicità, tutto ciò che non coinvolge emotivamente, tutto ciò che è banale, già visto, ripetitivo, è destinato al fallimento.

Quel che molte aziende sbagliano quando scelgono di raccontare chi sono, cosa fanno e perché lo fanno, è infarcire la propria narrazione di informazioni tecniche. Il risultato è pari ad un articolo di giornale, con una differenza: chi legge un giornale, molto probabilmente lo sta sfogliando, e quindi lo ha già comprato. Magari no, perché lo sta facendo al bar, allora qualcun altro lo avrà comprato per lui, il risultato non cambia. Inoltre, una rivista o un quotidiano avrà sempre informazioni fresche da offrire, mentre un brand non deve obbligatoriamente aggiornare la sua offerta, e se lo fa, deve rispettare il ciclo di vita del prodotto.

Così nella giungla del marketing, aziende che offrono gli stessi prodotti o gli stessi servizi, rischiano di sembrare identiche, anche se non lo sono.

 

Fatti della stessa pasta

Prendiamo, ad esempio, due pastifici. Producono gli stessi formati di pasta, sono localizzati nella stessa area geografica, hanno lo stesso target di rifermento. Fingiamo che realizzino una pasta per intenditori, un prodotto che mantiene la cottura, con un prezzo medio-alto, distribuito in punti vendita specializzati e non riservata al largo consumo. Fingiamo (proprio per esagerare) che le due aziende si riforniscano del frumento dallo stesso fornitore.

In questo caso, cosa cambia? Cambia chi c’è dietro. Cambiano i protagonisti dell’impresa, la loro storia, da dove vengono. Cambiano il punto di forza, la mission e la vision, il modo in cui i datori di lavoro trattano i dipendenti, l’amicizia che lega i colleghi, il motivo per cui hanno scelto di lavorare lì, se nutrono delle speranze, se hanno già fatto un salto di carriera.

In sintesi, cambia il lato umano. Che è sempre diverso, anche se due prodotti sono, sostanzialmente, identici. La pubblicità ha il compito di raccontare quel lato, perché per emozionare gli umani servono altri umani.

Se il cliente non si fida

Lo Storytelling è l’arte di raccontare storie. Seguendo l’assioma del padre della comunicazione, Paul Watzlawick, e degli accademici dell’Università di Palo Alto, secondo il quale l’essere umano “non può non comunicare”, potremmo dire anche che “non può non raccontare”. Dall’alba dei tempi, l’Uomo è affamato di storie, le ha tramandate oralmente, poi le ha scritte e su di esse ha costruito le fondamenta della civiltà. Questo è anche il motivo per cui, tra i nostri principali compagni di vita, ci sono i romanzi, i film, le serie-tv, i videogiochi, i social, perfino (e purtroppo) i talk-show che parlano con poco rispetto dei fatti di cronaca. Siamo affamati di storie, vere e inventate.

Fino a qualche decennio fa, l’efficacia dello Storytelling come strumento persuasivo era percepibile ma non quantificabile. In seguito, alcuni scienziati hanno cominciato ad analizzare in che modo le storie, nelle loro varie forme, influenzino le nostre menti. A variare, in base alla modalità con cui le informazioni ci vengono presentate, non è solo il tipo di elaborazione, ma anche il livello di fiducia. In pratica, quando leggiamo argomentazioni fattuali, aride, tendiamo ad alzare la guardia: diventiamo scettici e molto più critici.

Quando ci viene presentata una storia invece, accade il contrario. Abbassiamo la guardia, ci sentiamo emotivamente più coinvolti e questo, in maniera inconscia, ci lascia senza difese.

 

Storytelling, ovvero l’istinto umano di narrare

In un articolo apparso sulla rivista statunitense Fast Company, l’accademico Jonathan Gottshall, autore del libro The Storytelling Animal (in italia L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, ed. Bollati Boringhieri) ha scritto:

I risultati mostrano continuamente che i nostri atteggiamenti, le paure, le speranze e i valori sono fortemente influenzati dalle storie. In effetti, sembra che la fiction sia più efficace, per modificare le credenze, di altre forme di scrittura specificamente orientate a persuadere attraverso argomentazioni ed evidenze fattuali.

Ma come si applica lo Storytelling in ambito pubblicitario? Per rispondere, bisogna abbandonare l’idea comune che vede le storie solo come un mezzo di comunicazione o di intrattenimento. Le storie possono invogliare all’azione, spingere a sostenere una causa o abbracciare una visione. Si tratta delle purposeful stories, storie “finalizzate” o “intenzionalizzate”, ovvero “che si raccontano con un fine specifico in mente”.

Così lo Storytelling diventa un alleato perfetto per processare design di prodotti, ottenere il buy-in, capire a fondo le persone per cui lavoriamo arricchendo l’user journey con percorsi in cui si analizza ciò che un utente può pensare, sentire, di cui può aver bisogno e di cui si preoccupa.

 

Pubblicità e storytelling: un matrimonio di successo

Sono infiniti gli esempi di storytelling marketing applicato da grandi brand. Spot capaci di creare infinito engagement, di emozionare e inserirsi nell’immaginario collettivo.

Una delle campagne di maggior successo in questo senso, seppur poco conosciuta in Italia, è quella di Huawei e del suo P Smart 2018 che, attraverso la storia del piccolo Gnu Gnu, affronta l’argomento delle responsabilità individuali nella diffusione di contenuti social.

Un altro meraviglioso esempio di “marketing emozionale” costruito su una narrazione è la campagna You can’t stop us di Nike, realizzata per celebrare la ripresa degli eventi sportivi dopo il lockdown del 2020.

Scrivono gli autori del libro The Storytelling Edge, Joe Lazauskas e Shane Snow:

Le buone storie ci sorprendono. Ci fanno pensare e sentire. Rimangono impresse nella nostra mente e ci aiutano a ricordare idee e concetti in un modo che un PowerPoint pieno di grafici a barre non potrà mai fare.

Un pensiero su “Storytelling: perché le storie influenzano il marketing (e le nostre menti)

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