La parola pubblicità proviene dal termine francese publicité, che a sua volta deriva da public, pubblico. Il riferimento è chiaro anche in lingua italiana. Eppure spesso chi si occupa di pubblicità focalizza il lavoro su due soli aspetti: il prodotto da vendere e il produttore.

Ma da qualche parte lì fuori c’è, per l’appunto, il pubblico. Oggi per raggiungerlo si rischia di dribblare montagne di annunci egoriferiti, elenchi di competenze, qualità ostentate senza che siano mai state richieste.

Dimmi chi sei solo se puoi aiutarmi

Una mattina, mentre va al lavoro in bicicletta, Mario viene urtato da un’auto. Tranquilli non è grave, si è solo rotto una gamba ma è comunque a terra ed in stato di shock. Ad assistere alla scena, tra i vari pedoni, ci sono anche due fisioterapisti.

Il primo si avvicina a Mario e dice: “Salve, sono il dottor De Fuffis e mi presento. Da anni mi occupo di riabilitazione ortopedica e grazie alla mia equipe di esperti oggi l’intera struttura è riconosciuta come un’eccellenza del settore. La mia è una realtà consolidata che fa della dedizione per il paziente il suo punto di forza: ogni membro della squadra ha conseguito due lauree e una specializzazione. Siamo pronti a prenderci cura di lei per farla tornare, al più presto, a svolgere le sue consuete attività.”

Il secondo invece presta il primo soccorso, monitora il battito cardiaco, chiede a Mario di muovere leggermente la gamba per capire in che punto potrebbe esserci la lesione. Applica una fasciatura di fortuna e attende l’arrivo del 118. Quando Mario viene preso in carico dai sanitari e si è tranquillizzato, aggiunge: “Non si preoccupi, probabilmente è una semplice frattura, guarirà in un paio di mesi. Le lascio il mio numero di telefono nel caso avesse bisogno di un ulteriore consulto. Io lavoro presso la clinica di riabilitazione X. Se vuole, sarò felice di aiutarla”.

Chi dei due verrà scelto da Mario?

Ok, a molti questo esempio appare non sense, poiché è insito nella natura umana prestare soccorso ad una persona ferita, ma la provocazione è necessaria: sentite quanto è inopportuno e sgradevole l’atteggiamento del primo fisioterapista? Ecco, alcune pubblicità trasmettono una sensazione simile.

Malattia del leader: abolire la comunicazione superficiale

Nel libro Immagini Vs parole, il copywriter Davide Bertozzi punta il dito contro la “moda” della pubblicità autoreferenziale:

Stiamo vivendo un periodo storico pieno di leader di settore e di numeri uno, un periodo in cui la fama su Linkedin è per molti una malattia, un periodo in cui, a farla breve, parliamo tanto di noi stessi e poco del pubblico (…). La malattia del leader, la superficialità con cui viene trattata la comunicazione e l’approccio al “megadirettore galattico”, portano certe aziende a parlare solo di sé, di quanto sono brave, abili, utili, originali, spingendo nel dimenticatoio questioni importanti come i bisogni delle persone, il valore aggiunto del prodotto e la narrazione d’impresa.

Un atteggiamento, secondo Bertozzi, che si riscontra soprattutto nei testi di brochure, siti web, company profile e materiale pubblicitario.

Spesso già dalle prime parole di una frase troviamo indizi chiarissimi che svelano l’intento autoreferenziale della comunicazione. Se una frase inizia con “il nostro metodo”, “il nostro valore”, “la nostra realtà” dovrebbe accendersi in noi un campanello d’allarme.

Io, Noi, e Loro: pensare come il pubblico (o almeno provarci)

L’ecosistema aziendale in cui siamo immersi tende a prosciugare energie ma anche punti di vista. Non succede sempre, ma è un rischio concreto, un po’ come nel mito della Caverna di Platone. Qui non si osservano le ombre ignorando la luce del mondo esterno, ma ci si focalizza sul proprio business tralasciando il resto.

Analisi di mercato, competitor, profilazioni: nel marketing si guarda molto al vicino, poco all’ospite. Così la comunicazione linguistica diventa uno standard al pari delle immagini stock e più si aggiunge, più il messaggio perde valore. Basta con i “team dinamici”, le “soluzioni concrete”, l’”attitudine al problem solving”, il “declinare” e il “coniugare”, il perenne “al servizio del cliente”. Si tratta di scorciatoie, scelte comode che non dicono nulla di nuovo. Non trasmettono intimità, né comprensione, non coinvolgono né persuadono: in pratica, da un punto di vista pubblicitario, sono termini inutili.

È davvero tutto così innovativo?

Dal paniere degli aggettivi abusati, ne estraiamo uno a caso. Eccolo, come un numero della tombola, compare lui: innovativo. Per lo standard marketing, oggi tutto è innovativo. Idee, progetti, strumenti, servizi, aziende, studi, tecnologie, i prodotti più disparati. In effetti, viviamo in un’epoca di grandi innovazioni, ma da qui a definire innovativo tutto quel che ci circonda, c’è differenza.

Quando utilizziamo un aggettivo dovremmo chiederci: è davvero lui quello giusto? Posso sostituirlo con un altro che esprima meglio le caratteristiche del mio prodotto? Se la risposta è sì, cambiate rotta. Innovativo è un aggettivo pericoloso perché può disattendere le sue promesse. Per il vocabolario, l’innovazione è la dimensione applicativa di un’invenzione o una scoperta, apporta benefici significativi o un progresso sociale. Capite insomma, che si tratta di una definizione ingombrante, oltre che inflazionata. I bravi copy e content creator lo sanno. Questo è il motivo per cui navigando sul sito di uno dei brand più innovativi di sempre, ovvero Tesla, non troverete neanche una volta l’aggettivo innovativo (controllare per credere).

Prendersi cura delle parole

Nel libro Caro Cliente edito da Zanichelli, Annamaria Anelli spiega perché è importante coltivare le relazioni con chi ci legge o ci ascolta, e perché “una parola non vale l’altra”.

Informare è diverso da condividere una decisione. Un conto è dire a qualcuno che è pignolo, un altro è dire che è meticoloso. (…) Possiamo esprimere lo stesso concetto con parole differenti, più o meno calibrate sul nostro interlocutore. Più riescono a entrare in sintonia con lui, più risultano utili. Più gli sono distanti, più rischiano di lasciarlo indifferente, dubbioso o, peggio, di contrariarlo.

Un linguaggio preciso, un lessico che sappia “rendere le sfumature del pensiero e dell’immaginazione” avrebbe detto Italo Calvino. Del resto, il processo creativo resta un esercizio costante che dura (forse) tutta la vita. Sembra tanto, ma non è così: se pensiamo a quante idee invadono i nostri device, gli spazi fisici, le strade che attraversiamo, capiamo che una vita non può contenerle. E allora bisogna mettere in disparte quelle mediocri, abbracciare il destino tortuoso del creativo. Perfino accettare che il marketing abbia un lato empatico. Senza, il messaggio si arresta a metà corsa.