Tutti sappiamo che il nostro linguaggio, le parole, i segni grafici a cui assegniamo dei significati, non sono eredità della natura, ma frutto di una costruzione arbitraria dell’uomo. Allo stesso modo, siamo convinti che le associazioni cromatiche della nostra mente siano naturali e immutate dall’alba dei tempi.

Quando sentiamo la parola arancione, viene spontaneo pensare ad un’arancia, blu al mare o al cielo, verde ad un prato. Siamo certi che se lo facciamo, è perché la natura ha deciso di rendere le arance arancioni, il mare blu e il prato verde, ma la questione è più complessa.

Col passare dei secoli, abbiamo affidato ai colori una serie di significati totalmente arbitrari, proprio come è successo con le lettere e i loro suoni. Tale fenomeno ha subito un’accelerazione vertiginosa con il marketing e l’ascesa del design.

 

Psicologia del colore e neuromarketing

Nel libro Cromorama (ed. Feltrinelli Stile libero), il visual designer Riccardo Falcinelli definisce quella del nostro tempo “una società delle immagini”. In questa società “il colore informa, come nelle mappe. Seduce, come in pubblicità. Narra, come al cinema. Distingue, come negli alimenti. Oppone, come nella segnaletica stradale (…). Tutto questo accade grazie a qualche tecnologia. In primis quella dei mass media, che comunicano e amplificano le abitudini cromatiche. Il pubblico osserva, sceglie, impara; finché queste consuetudini non standardizzano la percezione e il colore comincia a parlare da solo”.

È da queste riflessioni che nascono discipline come la Psicologia del colore e della percezione che studiano in che modo i colori siano in grado di modificare il nostro umore, stimolare i nostri sensi e spingerci perfino a compiere alcune azioni.

In un recente articolo riguardante alcune campagne marketing di Coca-Cola, abbiamo raccontato come il solo modificare il colore di un packaging (soprattutto se relativo ad un prodotto in fase di lancio) possa invertire l’andamento delle richieste sul mercato.

A tale esempio, si affianca un secondo concetto, relativo invece al rapporto che un brand ha con un dato colore. La storia di Coca-Cola serviva a comprendere quanto l’efficacia di un marchio lo renda inscindibile dal suo colore nel momento in cui ne viene universalmente riconosciuta l’identità. Parliamo di efficacia perché privare un logo del suo colore non lo rende di certo sconosciuto.

 

Mc Donald’s, il giallo intramontabile

Se un giorno Mc Donald’s scegliesse di colorare la sua celeberrima M gialla di blu, nessuno metterebbe in dubbio che quella è la M di Mc Donald’s, ma è probabile che le vendite del Fast Food andrebbero in calo. Questo perché nonostante le associazioni con il brand Mc Donald’s facciano ormai parte dell’immaginario collettivo (cibo economico e gustoso, servizio rapido, ambiente informale, giocattoli per bambini in regalo, ecc…), il colore giallo stimola l’appetito, trasmette gioia e ottimismo e, nel caso specifico, richiama gli ingredienti più apprezzati del menu, come le patatine fritte, il cheddar e la panatura delle Chicken McNuggets. Inoltre, secondo alcuni studi, il giallo è anche il colore a cui bambini sono più sensibili e con il quale realizzano più spesso i propri disegni.

Evoluzione logo Mc Donald’s (packaginginitaly.com)

Il blu, al contrario, non ha alcuna attinenza con il settore del food. Lo si trova nei brand di finanza, nei loghi di app e software e in campo farmaceutico. È una tinta che, in base alle sue sfumature, sa trasmettere un senso di purezza, pulizia, competenza, lealtà. Ma poiché l’esperienza umana insegna che alimenti saporiti di tal colore non esistono (e se esistono è solo grazie ad additivi chimici), se si osserva il blu non viene attivato alcun ricettore cerebrale legato al senso di fame.

È per questo che negli anni, il gigante del fast food ha applicato una serie di modifiche cromatiche al proprio logo, aggiungendo sfondi rossi o verde scuro, senza mai intaccare il ruolo da protagonista del giallo.

 

Rosa, il colore delle donne. Oppure no

Se non avete più di ottantacinque anni, è assai probabile che la prima associazione mentale con il colore rosa sia legata al mondo femminile. Se ci riflettete, non c’è alcun motivo naturale che possa mettere in correlazione le due cose.

Nella maggior parte delle culture orientali, il rosa non è associato ad alcun genere. Nei rari casi in cui lo sia, viene accostato a quello maschile e questo accadeva anche nel mondo occidentale prima degli anni Quaranta. Il rosa non è altro che un derivato del rosso, colore della vitalità, della passione e del sangue, mitigato dal bianco che invece richiama purezza e spiritualità. In pratica, fino a poco meno di cento anni fa, uomini e donne si vestivano di rosso durante le cerimonie ufficiali, di rosa durante occasioni meno solenni, per richiamare la stessa eleganza del colore primario ma in versione attenuata. Nel tempo, gli uomini hanno iniziato a preferire tinte sempre più forti mentre le donne quelle pastello.

Approfittando di questa tendenza, i marchi di moda hanno incrementato la produzione di abiti femminili in rosa e hanno smesso di utilizzarlo per i capi maschili. A suggellare questa nuova linea di demarcazione ha contribuito, negli anni Sessanta, la nascita della bambola più famosa di sempre. Barbie approda sul mercato dei giocattoli con un logo e un packaging rosa acceso, talmente caratteristico da conquistarsi l’appellativo di “rosa Barbie”. Negli anni Ottanta il rosa si è consacrato come “il colore di bambine e ragazze per antonomasia” e solo ora i nuovi movimenti artistici e culturali, insieme alle case di moda, hanno avviato un percorso di dissociazione tra i generi.

 

Jason Momoa in rosa per Fendi (Cerimonia degli Oscar 2019)

Ribaltare i significati: il “macho” diventa pink

Quasi tutti i marchi che si rivolgono esclusivamente a consumatrici, continuano ad utilizzare sfumature del rosa e del fucsia nelle proprie campagne. Parliamo di prodotti destinati all’igiene intima femminile, al ciclo mestruale, al make up e all’epilazione, profumi, integratori per attenuare i fastidi della menopausa. Cambiare certi significati è un processo lungo che necessita di tempo, tentativi e, soprattutto, capacità di osare. La prima piccola rivoluzione parte dalle star: in questi anni, personaggi come Harry Styles, Ghali, Lewis Hamilton, Justin Bieber e Jason Momoa si sono più volte presentati sui red carpet vestiti di rosa. Del resto, chi non ricorda il leggendario The King, Elvis Presley, con la sua mitica pink Cadillac? Insomma, per il (buon) marketing è arrivato il momento di distinguere certe associazioni dagli stereotipi. E magari anche di lasciare il rosa un po’ a tutti.